Il lettore ha il diritto di non finire un libro. Non lo dico io, lo dice Pennac, ma sono assolutamente d’accordo, perché non è obbligatorio andare avanti nella lettura se un libro non ci piace, non ci prende, non ci interessa. Mi capita di farlo e mi è capitato di abbandonare ben due volte Persone normali di Sally Rooney, il secondo romanzo dell’autrice pubblicato da Einaudi editore, sentendomi insoddisfatta anche di questa scelta. Alla fine ho riprovato per la terza volta e sono arrivata all’ultima pagina non senza qualche fatica. I protagonisti della storia sono Marianne, studiosa, appassionata di politica, un po’ schiva e diffidente, esce solo per andare a scuola e per la messa della domenica, e Connell, il classico alto, sportivo, bello e bravo che piace a tutti. Vivono entrambi in un paesino dell’Irlanda, frequentano lo stesso liceo e provano un’irrefrenabile attrazione che li porterà per quattro anni a un continuo prendi e lascia. Ogni volta la relazione cambia forma: si passa dalla clandestinità alla spensieratezza, dall’amore all’amicizia, ma niente viene mai racchiuso in un’unica condizione sentimentale. Non stanno insieme, anche se stanno insieme. Una storia adolescenziale che mi ha ricordato lo snervante tira e molla di Dawson e Joey, solo che nel telefilm ci si poteva appassionare anche agli altri personaggi, gioire o soffrire dei cambiamenti e degli abbandoni, mentre in Persone normali tutto è focalizzato su due personaggi che – come diremmo adesso in gergo tecnico – “non mi sono arrivati”. Certo, non dobbiamo per forza affezionarci ai personaggi, ma almeno mi aspetto di sentire un interesse profondo nei loro confronti.
Perché ho voluto finire il libro? Perché, al di là della storia, Sally Rooney è maledettamente brava a scrivere, precisa, dettagliata, ha uno stile riconoscibile che ho apprezzato molto di più in Parlarne tra amici, il suo esordio scoppiettante: anche lì protagonisti dei quali non vorresti essere grande amica, ma situazioni e sviluppo della storia di gran lunga più avvincenti. È così talentuosa che è in grado di caratterizzare i protagonisti, permettendoti di entrare nella loro testa caotica, tanto da intuire senza grosse difficoltà cosa faranno o cosa diranno. In Persone normali non succedono chissà quali tragedie amorose, anzi, non succede niente: siamo di fronte a innumerevoli incomprensioni, ai famosi silenzi che parlano e trasmettono emozioni (ve l’ho detto che la Rooney è bravissima a scrivere), a un romanzo permeato di incomunicabilità e pensieri mai espressi se non nel loro contrario. Eppure non riesco a dire che non mi sia piaciuto, perché ho trovato brillanti le tematiche di fondo, il ribaltamento dei ruoli nei sentimenti, la volontà di dipendere dall’altro, le difficoltà a tagliare un ramo che ha smesso di crescere, il dominio fisico e psicologico che gli altri hanno su di noi, il desiderio di essere semplicemente una persona normale (per gli altri? Per noi stessi?) che non si lascia soggiogare dal parere di chi le ruota intorno.
Questo è un romanzo che divide, o piace o non piace, ma io mi sento del tutto incapace di valutarlo come vorrei, e forse è anche questa la sua forza, perché quel non riuscire ad andare avanti nella lettura mi ha fatto trovare il tempo per riflettere su aspetti che da sempre affliggono l’animo umano dall’adolescenza in poi. Non lo so se sia il libro a essere incompiuto, Marianne e Connell a cercare ossessivamente di condividere le loro solitudini, o io a non sentirmi pienamente soddisfatta, però siamo qui a parlarne e questo mi basta.
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Per un attimo sono rimasti lì in silenzio, lui con le braccia intorno a lei, a respirarle sull’orecchio. La maggior parte della gente, ha pensato Marianne, vive un’intera vita senza mai sentirsi così vicina a qualcuno.
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Non so cos’ho che non va, dice Marianne. Non so perché non riesco a essere come le persone normali.