Ogni libro di Delphine De Vigan ci mette di fronte a numerosi dubbi e domande esistenziali. Ogni sua verità diventa anche la nostra, ogni sua ipotetica finzione si intrufola facilmente anche dentro di noi. Ma quali domande potrebbe porsi un genitore leggendo Le fedeltà invisibili, il suo ultimo romanzo pubblicato da Einaudi? Si parla di figli, di quasi adolescenti, di rapporti familiari, di alcolismo, di scuola e dei ruoli che hanno gli insegnanti. Quando ho finito di leggerlo – e ancora adesso – non riesco a farmi un’altra domanda che non sia “Chi ha un figlio di 12 anni come può stare tranquillo?”.
Questo perché il protagonista, Théo, è un ragazzino che sta crescendo e sta per entrare nel mondo degli adulti pieno di responsabilità e angosce che cerca di stemperare bevendo alcolici. Théo fa fuori bottiglie di vodka e rum, sperando di abbandonarsi e immergersi in una nuvola bianca in cui sia impossibile distinguere le persone, le situazioni, i ricordi: l’obiettivo è annullarsi completamente. In questa gioco di autodistruzione c’è anche Mathis, il suo unico amico che, nonostante il divertimento e lo spirito di trasgressione che può dare una bevuta dentro le mura scolastiche, capisce quando è il caso di fermarsi. Théo no, prosegue nella sua folle corsa verso il nulla, perché non ce la fa più a subire il divorzio dei genitori, a vivere una condizione estrema di affidamento condiviso, a non poter parlare dei seri problemi del padre con sua madre. C’è solo una persona in grado di prestare attenzione ai suoi silenzi e ai suoi strani comportamenti in classe: è Hélène, l’insegnante di scienze, che durante l’infanzia ha subito forme di maltrattamento in famiglia e sviluppato una certa sensibilità. Hélène proietta quella sua sofferenza latente nell’alunno che ha costruito un solido muro, per quanto possano essere grandi e spessi i mattoni di una giovane vita.
È qui che Delphine De Vigan tira fuori tutta la sua capacità di raccontare i personaggi, di far emergere le loro fragilità, i loro segreti, le loro fedeltà invisibili, anche a costo di estremizzare alcuni momenti. Nel romanzo ci sono altri personaggi pieni di turbamenti che entrano in scena e che ci aiutano a capire cosa siano questa fedeltà invisibili, alle quali tutti noi ci aggrappiamo perché trasmettono sicurezza, nonostante le difficoltà e le ferite che provocano. La tensione che si avverte nelle prime pagine sfocerà nel finale, anche se la vera essenza è nel cuore del romanzo: lentamente si fa strada una luce, che non sapremo mai fino all’ultima pagina quanto sarà forte per illuminare e salvare le vite in gioco. In 134 pagine la De Vigan fa emergere quanto possano essere distruttivi i legami familiari e quanto conti ancora oggi il ruolo degli insegnanti, ma ancora di più quanto sia fondamentale essere pronti ad aiutare qualcuno in difficoltà, anche con un gesto invisibile.
Le fedeltà invisibili. Sono fili che ci legano agli altri, ai vivi come morti, sono promesse che abbiamo sussurrato e di cui non riconosciamo l’eco, lealtà silenziose, sono contratti per lo più stipulati con noi stessi, parole d’ordine accettate senza averle compresse, debiti che custodiamo nei recessi della memoria. Sono le leggi dell’infanzia che dormono dentro il nostro corpo, i valori per cui lottiamo, i fondamenti che ci permettono di resistere, i principî indecifrabili che ci tormentano e ci imprigionano. Le nostre ali e le nostre catene. Sono i trampolini da cui troviamo la forza di lanciarci e le trincee in cui seppelliamo i nostri sogni.
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Teo aveva imparato in fretta a recitare il ruolo che ci si spettava da lui. Parole misurate con il contagocce, espressione neutra, occhi bassi. Non fornire alcun pretesto. Da entrambi lati della frontiera il silenzio si era imposto come atteggiamento migliore, quello meno rischioso.
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Vorrebbe raggiungere lo stadio in cui cervello si mette in pausa. Lo stato di incoscienza. Far tacere finalmente quel rumore acuto che sente solo lui, che si manifesto di notte e a volte anche in pieno giorno. Ci vogliono quattro grammi di alcol nel sangue. Alla sua età probabilmente un po’ meno.
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Si chiama coma etilico. Gli piacciono queste due parole, il loro suono, la loro promessa: un momento di scomparsa, di eclissi, in cui non devi più niente a nessuno.
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A volte penso che diventare adulti non serve nient’altro che a questo: riparare le perdite e i danni originari. E mantenere le promesse del bambino che siamo stati.