L’esercizio di ricordare fa più bene a me che a mia madre. Lei si limita ad ascoltare, ma non dà segni di ripresa. Cerca qualcosa che io non riesco a indovinare. I suoi occhi misurano il luogo dove si trova, compiono un giro sulle pareti della stanza e tornano ad assopirsi. A me invece succede il contrario: più le racconto il nostro passato, più mi faccio ordine dentro. Ho ventun anni, non sono ancora arrivata all’età in cui i ricordi contano più dei sogni, eppure starle accanto, in questi giorni in cui Milano si ubriaca di pallone, mi serve a capire dov’è finita la vita sbarluscenta, nostra familiare voglio intendere, quella che nominava mio padre e anche quella dell’Italia tutta.
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Mi piacerebbe chiedere a mamma se la smania di visitare la Rinascente non sia stata, per mio padre, una specie di veleno entrato per inganno nel sangue, un malanno che gli ha rovinato la vita anziché rendergliela migliore, un inciampo del futuro che si presentava nelle luci delle vetrine e poi gliele spegneva, come succede quando uno aspetta, aspetta e alla fine capisce di aver buttato via il tempo. Io non so se mio padre abbia davvero trovato quello che cercava nelle vetrine. Non gliel’ho mai chiesto, non ne ho avuto l’occasione.
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Tu mi comprendi se dico che il tempo di cui ti parlo, il tempo della nostra vita anteriore, vale solo se lo ricordiamo? Se ce lo dimentichiamo, è come se il passato l’avessimo chiuso in una stanza e avessimo gettato la chiave. È materia inutile, scarto di anni, spazzatura di vita appesa a un chiodo arrugginito.
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Ricordare non è un esercizio difficile. È il più naturale dei nostri bisogni. È come respirare, camminare, vivere.
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Riconosco a distanza di anni […] che prima o poi arriva il tempo in cui la vita ci chiede spiegazioni di quel che abbiamo seminato. È un’operazione matematica: si tira una linea e si fanno i conti. Se abbiamo dato, avremo. Se abbiamo avuto, ci tocca pagare.
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Un libro che inizia con la dedica “A Milano, all’alfabeto delle sue periferie, all’incanto delle sue luci”, è un libro pronto a raccontarti una storia che ti entrerà nel cuore.
In Gli anni del nostro incanto di Giuseppe Lupo, tutto parte da una fotografia in bianco nero: su una Vespa ci sono una mamma, un papà e due bambini, che girano per Milano lasciandosi avvolgere dall’arrivo del cambiamento, del boom economico, del benessere che entra senza bussare nelle case degli italiani. Sono gli anni Sessanta, quelli delle speranze nel futuro, dei sogni, degli elettrodomestici che non possono mancare. Quella della foto, è una famiglia felice, e i ricordi che si porta dietro sono gli stessi che Vittoria cerca di far tornare alla mente della madre, colta da un’improvvisa amnesia. Durante il ricovero in ospedale, la ragazza cercherà in tutti i modi di salvarla dalla nube in cui ha deciso di nascondersi per non fare i conti con le sofferenze della vita, i distacchi, le assenze, le incomprensioni. La perdita di memoria e il senso di solitudine vengono riempiti dalle storie delicate ma incisive, raccontate proprio come se fossimo di fronte a un parente che ha voglia di aprire la finestra del passato. In ogni capitolo possiamo rivivere il contesto storico – bastano un dettaglio o un breve dialogo per cogliere le sfumature socio-culturali – e conoscere i componenti della famiglia.
Louis, il padre, sempre pronto ad accogliere le novità tecnologiche, anche a costo di indebitarsi, e a sognare una casa in via Gluck, per vedere se davvero dove un tempo cresceva l’erba adesso crescono i palazzi. Regina, la mamma che ama ballare ai dancing dei Navigli, possiede la grande dote di assecondare le idee rivoluzionarie del marito per non discutere e detesta le fotografie, perché mentono, le percepisce come un’alterazione della realtà. Indiano, il figlio tormentato e taciturno, dopo un periodo in seminario per capire se Dio è morto, si rende conto che sì, è morto, allora meglio scegliere un’altra strada, quella della lotta armata. E poi Vittoria, la figlia che si augura di avere un destino come quello del suo nome, estroversa e malinconica, spettatrice e protagonista di tutti quei momenti che hanno fatto la storia di una famiglia.
In questo libro pubblicato da Marsilio, Giuseppe Lupo ha fatto emergere sogni, speranze e illusioni di due generazioni attraverso una costruzione del romanzo organizzata in capitoli brevi ma densi di quel desiderio fortissimo che è la narrazione. Poche pagine, ma di un’intensità potentissima, emozionanti e di un realismo poetico, merito di un’eccellente padronanza della scrittura. Milano è tratteggiata con tutte le sue contraddizioni, con la classe piccolo-borghese che cerca rifugio nella novità del benessere e del progresso, ma che continua a stringere forte le tradizioni e gli angoli bui dell’antica autorità familiare. Il potere evocativo di una foto d’epoca è solo il punto di partenza per ripercorrere le strade del passato, a tutto il resto ci pensa il presente.