Perché il vuoto vero non è il niente, ma il niente dove invece dovrebbe esserci qualcosa. Qualcosa di importante, che c’è sempre stato, poi a un certo punto guardi e ti accorgi che quella cosa non c’è più.
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Invece è morta, l’anno scorso, così dal nulla. Stava in fila alla banca e dicono che ha detto qualcosa che però non aveva senso, poi è andata giù e addio. Era il quattordici marzo, ma per me è morta il diciotto, perché le persone che gli vuoi tanto bene ci mettono sempre un po’ a morire nella tua testa.
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Tutto il giorno il tempo è stato quello tipico di Muglione, cioè senza nulla: niente nuvole, niente vento e niente sole, una tavolozza vuota che Dio dice domani ci penso domani ci penso e poi non ci pensa mai.
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In un momento come questo non ha senso andare da nessuna parte, non ha senso nemmeno stare dritti in piedi. È solo il caso di rimanere a letto con le finestre chiuse e gli occhi fissi all’insù, nella speranza che il soffitto ci dica cosa fare.
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[…] tu non le capisci le tue amiche che si mettono con uno perché non c’è di meglio. Insomma, stare sole non è mica male. Cioè, magari da sola puoi starci male, ma in una relazione sbagliata stai male il doppio, e accontentarsi ti sembra la tristezza più grande del mondo.
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[…] se invece dell’agricoltura l’uomo primitivo avesse in ventato la bicicletta, ci sarebbe saltato sopra con la clava a tracolla e avrebbe attraversato di corsa tutta la storia del mondo senza fermarsi mai.
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Ci sono parole che ti restano dentro, piantate fonde nella pancia, e stanno lì una vita senza uscire mai. Ma sono legate fra loro con una specie di corda, e se per caso una si stacca e viene fuori dalla bocca, le altre le vanno dietro a cascata.
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Le cose vere non vanno mica dette per forza. Certe volte la verità fa schifo e si merita che la lasciamo da sola in un angolo a meditare su quello che ha fatto.
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Per una volta nella vita scopri che stare bene non è una partita impossibile, soprattutto se smetti di giocarti contro.
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Io questo libro non volevo leggerlo. È da quando è uscito che me lo ritrovo sempre sotto il naso: a casa di amici, fuori posto in libreria, sulla sdraio del vicino di ombrellone. Ogni volta leggevo la quarta di copertina, che so a memoria, qualche pagina qua e là, e mi dicevo: «Non è questo il momento giusto per leggerlo». Senza un motivo preciso, solo per una questione di sensazioni. Come se dentro ci fosse qualcosa che avrebbe potuto farmi male, e sentivo di dover starne alla larga. Poi è successo che ho letto tutti gli altri libri di Fabio Genovesi, e mi sono piaciuti. Tutti. Quindi, oltre ad avere quella strana sensazione verso Esche Vive, mi sono ritrovata ad affrontare anche il seguente problema: «E se non mi piace? E se mi delude? Riuscirò ancora a consigliare gli altri suoi libri?». Per una psicosi del genere, mi avrebbero già internata a Briarcliff (American Horror Story).
Alla fine ho deciso di provarci. Una sera, dopo cena, mi è venuta voglia di Esche vive, tipo dessert. Dal primo capitolo mi era già tutto chiaro. Leggetelo bene, il primo capitolo, e se avete i poteri inseritelo nelle antologie per ragazzi, o in quei libri di narrativa che facevano portare alle medie. Il primo capitolo è un racconto perfetto, potrebbe avere vita propria senza le successive trecento pagine. C’è la storia, c’è il gioco e c’è il dolore. E il dolore non termina con il primo capitolo, per niente. Nonostante mi piacciano i libri pieni di drammi familiari, di coppie che si amano e si odiano e si rincorrono per anni senza mai arrivare insieme al traguardo, io questo tipo di drammi letterari li metabolizzo e poi li supero, anche dopo mesi, ma li supero (gli eredi di Richard Yates dovrebbero pagarmi un analista). Perché so che è tutto molto lontano dalla mia vita e che a me non succederà mai una cosa del genere.
È quando leggo un libro che sembra raccontare pezzi di me, che iniziano i problemi. Mi viene l’ansia, ci sto male, sono io! L’immedesimazione è terribile. Pensa quando ti capita non con uno, ma con quasi tutti i protagonisti di un libro. In questo caso, i motivi sono diversi, anche solo per una battuta o per come si lagnano di tutte le sfighe del mondo, però senti che c’è qualcosa di te in Fiorenzo, un diciannovenne devoto all’heavy metal, che ha perso una mano giocando con i petardi e anni a chiedersi se fosse colpa sua la morte della madre, in Mirko, il Campioncino del ciclismo che si è lasciato sfuggire l’occasione di perdere qualche gara che lo avrebbe reso meno invincibile e più normale agli occhi dei compagni e della famiglia, in Tiziana, che dopo gli studi, i master e i buoni propositi di realizzarsi all’estero, ha mollato tutto per tornare in un paesino, Muglione, che sa di muffa e mestizia. Sono tutti personaggi che perdono qualcosa e poi trovano qualcos’altro. Salgono su un treno, scendono, ne prendono un altro, ma è quello sbagliato, e allora aspettano quello giusto che ovviamente sembra non arrivare mai, in un gioco di mancate coincidenze in stazioni desolate.
Le vite di Fiorenzo, Mirko e Tiziana si incrociano, pronte a salire tutte sullo stesso treno per un viaggio fatto di solitudini, sorrisi, incomprensioni, scopate, lacrime e successi. Tutto quel mix di emozioni che solo l’adolescenza sa regalarti. E anche se non tutti i personaggi sono nel pieno dell’adolescenza, ci ritroviamo di fronte a quegli umori misti a felicità e depressione, a quei dubbi che non ti fanno dormire la notte, a quei tentativi di perfezione che più rincorri e più fai disastri, a quelle inesperienze tenere e banali, a quelle curiosità che non vedi l’ora di toglierti. Nel romanzo non c’è limite alla tristezza (o forse, ormai, sono io a essere debole di magone), però le situazioni più assurde e divertenti come il primo vero non concerto dei Metal Devastation, l’interpretazione colorita de La pioggia nel pineto, i temi del Campioncino, le salite in bici senza più fiato e i lettori inesistenti del blog di Tiziana, vi faranno quasi dimenticare le amarezze della giornata. Perché grazie a Fiorenzo, Mirko e Tiziana capirete finalmente che, per vincere una volta per tutte, è necessario prima fare i conti con le sconfitte che vi portate dietro.
Io ho dovuto fare i conti con le mie, che sono tante, ma non tantissime (fatemi arrivare a 35 anni, poi ne riparliamo). Come Fiorenzo ho fatto i conti con una persona che non c’è più: mi sono domandata spesso cosa sarebbe successo, se avessi fatto qualcosa di diverso, anche solo una telefonata, un «Ciao, come stai?», magari adesso sarebbe ancora qui. Poi ho fatto i conti con un pezzo di cuore che anche se c’è, sarà sicuramente messo male, o finito chissà dove, saltato in aria a causa di un altro tipo di bomba. Come Mirko ho fatto i conti con quella perfezione della quale non mi importa quasi niente, ma per gli altri diventa ragione di vita. E, infine, come Tiziana ho fatto i conti con le scelte sbagliate, i treni persi, ché quando perdi il primo che è il più importante, poi non ti ritrovi più e ti vedi lì, in mezzo al caos di binari sconosciuti. Forse il trucco è cambiare valigia, darsi una sistemata ai capelli, e saltare semplicemente sul primo treno fermo e con le porte già aperte: «Sono qui per te, sali e mettiti comodo. Adesso inizia il bello». Esche vive è un libro che fa male, e lo sapevo, ma fa anche molto bene. E questo non lo sapevo.